Inquinamento e alimentazione: cibi da evitare, miti da sfatare
Che il tema alimentazione sostenibile sia oggi uno dei più spinosi, attuali, e probabilmente più annosi assieme alle questioni climatiche, nessuno può metterlo in dubbio.
Ma a contribuire all’inesorabile depauperamento delle risorse del territorio, non sono solamente gli allevamenti intensivi (https://www.udiconer.it/allevamenti-intensivi-fermiamo-larma-di-auto-distruzione-di-massa/), gli sprechi di cibo (https://www.udiconer.it/ridurre-lo-spreco-alimentare-per-un-pianeta-sostenibile/), le filiere lunghe (https://www.udiconer.it/alimentazione-i-vantaggi-della-filiera-corta-sullimpatto-ambientale/), quanto anche dei gesti molto più semplici e quotidiani, come la spesa che facciamo ogni giorno.
Recenti ricerche, infatti, hanno mostrato come alcuni tipi di alimenti siano assai nocivi per la salute della persona quanto per la salvaguardia dell’ecosistema, parere tra l’altro accolto e ricondiviso dal Prof. Giuseppe Remuzzi (Istituto Mario Negri) solo pochi giorni fa, a Bergamo, nel corso dell’intervento tenuto durante l’evento Forme (importante manifestazione a tema caseario). Il nefrologo infatti ha ricordato che, statistiche alla mano, “oggi si muore più di cattiva alimentazione che di droga, fumo, alcol e rapporti sessuali a rischio”.
Cibi killer, dunque. Niente di nuovo. Coldiretti, però, ci ha fornito un decalogo inerente “gli alimenti più inquinanti del pianeta”, quelli che insomma qualsiasi consumatore attento e oculato dovrebbe evitare come la peste. Molti di questi, purtroppo, sono di uso abbastanza comune e tentare di abbatterne la domanda può essere l’unica strada per la loro progressiva scomparsa, o quantomeno diminuzione, dai nostri scaffali.
La black list è stata redatta a partire dai risultati ottenuti dall’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (in uno studio sui residui dei fitosanitari in Europa) e dal Ministero della Salute (nel suo periodico “controllo ufficiale residui dei prodotti fitosanitari degli alimenti”) e comprende fra gli altri:
- Melograni della Turchia (uno su dieci dei prodotti controllati presenta delle irregolarità di vario genere nella filiera);
- Noci della California (ogni chilo di prodotto arriva qui percorrendo 9.000 chilometri, bruciando 5 kg di petrolio e sprigionando 15,6 chilogrammi di anidride carbonica);
- The cinese (che presenta il più alto grado di pesticidi sul mercato);
E poi ancora mirtilli argentini (compiono addirittura 11.000 km per arrivare sulle nostre tavole), olive nordafricane (usate spesso in vece del prodotto italiano, ben più pregiato e costoso), ed ancora asparagi, peperoncino, dragon fruit e legumi che giungono dalle parti più disparate e distanti, dal Messico all’Argentina fino all’Indonesia.
Emblematico su tutti, però, è il caso dell’avocado, il frutto più in voga del momento. I numerosi programmi tv ne hanno esaltato a più riprese non solo il gusto ed i principi nutritivi, ma anche la versatilità tanto alimentare quanto decorativa. Un alimento consumato anche per moda, insomma. Ebbene, il Cile, primo produttore mondiale di avocado (91 mila tonnellate di esportazioni verso l’Europa nel solo 2016, mentre erano “solamente” 62 mila l’anno precedente) sta subendo danni idrogeologici notevoli per assecondare la domanda mondiale in continua crescita. Il risultato: paesaggi modificati (splendide montagne di colore rossiccio, richiamo anche per i turisti, sono diventate sterminati campi monocoltura), fiumi secchi (occorrono 2mila litri d’acqua per 1 kg di avocado!) e popolazione costretta, in una zona dalle piogge poco frequenti, a centellinare le proprie scorte idriche, rasentando il più delle volte la siccità. Senza contare che la filiera cilena fa tappa in Spagna o nei Paesi Bassi, e l’Italia ne è soltanto la meta finale: il frutto arriva nei nostri supermercati dopo un mese di trasporto marittimo, partendo tra l’altro da una condizione di maturazione facilmente alterata e velocizzata con etilene (uno degli espedienti maggiormente usati per “dopare” le piantagioni).
È chiaro che il consumatore possa e debba dire la sua, in questa situazione, facendo dei propri acquisti il veicolo per far manifestare il proprio dissenso. Mangiare locale, agricoltura biologica, allevamenti sostenibili, km 0, stagionalità, sono tutte soluzioni a loro modo valide, ma devono essere applicate con senso critico.
Acquistare prodotti locali, ad esempio, contribuisce alla diminuzione della filiera; va però tenuto presente che per la stragrande maggioranza degli alimenti, l’80% dell’impatto ambientale viene generato in fase di produzione, mentre quello dei trasporti non cuba che il 10% o poco meno. Quindi, acquistare e mangiare locale è un bene, ma è più importante in quest’ottica chiedersi “cosa” si acquisterà, piuttosto che “da dove”. Allo stesso modo è encomiabile comprare a Km 0, ma guai a farlo di prodotti fuori stagione! Il concetto di Km 0 non implica per forza che il prodotto non abbia subito lunghi periodi di congelamento o che non siano stati utilizzati mezzi di produzione intensivi o dannosi. Ed infine, è sicuramente meglio comprare carne da allevamenti sostenibili che non da altro genere di attività zootecniche, ma va ricordato anche che a prescindere da come vengano allevati, i capi di bestiame sono sempre responsabili di oltre l’80% delle emissioni di gas serra, quindi nessun allevamento potrà mai essere così sostenibile da non giustificare una volontaria diminuzione del consumo di carne.