Newsletter_16 del 29.07.2017
29 Luglio 2017
in | Azione 6 | Progetto 2017
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I diritti dei consumatori secondo il Codice del Consumo
Nell’art. 2 del Codice dl Consumo vengono elencati, quasi alla stregua di un “bill of rights”, i diritti del consumatore e, accanto a diritti come la sicurezza, l’adeguata informazione, la pubblicità, importanti ma non rivoluzionari, il comma 2 dell’articolo 2 individua diritti che hanno un fortissimo impatto sui tradizionali principi che hanno da sempre ispirato il diritto privato generale. Più precisamente alla lettera e) si legge che ai consumatori ed agli utenti sono riconosciuti come diritti fondamentali la correttezza, la trasparenza e l’equità nei rapporti contrattuali: la qual cosa pone il problema di definire più compiutamente a cosa alluda il termine “equità”.
L’equità che ha in mente il legislatore del Codice del consumo non ha certo a che fare con il prezzo praticato al consumatore: sotto questo aspetto l’autonomia privata non può essere limitata, neppure nel contratto del consumatore. Come la dottrina ha ormai chiarito equità nei rapporti contrattuali non significa che questi contratti debbano riportare prezzi “giusti”, ma significa piuttosto che il rapporto contrattuale di cui il consumatore è protagonista, non deve essere disequilibrato, non dal punto di vista economico, ma dal punto di vista della regolamentazione, cioè del così detto equilibrio normativo. Si ha disequilibrio normativo nella situazione in cui il consumatore è svantaggiato perché alcune clausole del contratto gli addossano rischi, gli impediscono di esercitare diritti o rimedi, in una parola lo penalizzano dal punto di vista del regolamento contrattuale.
L’attenzione si sposta, quindi, a questo punto, sull’articolo 33 del Codice del consumo, che si occupa delle clausole abusive nei contratti del consumatore. Nella pratica il consumatore non negozia le clausole del contratto ma decide se aderire o meno ad un regolamento contrattuale che è predisposto dal professionista (ed è normale che sia così perché l’impresa ha bisogno di contratti standardizzati). Il Codice del consumo pone allora dei paletti circa le clausole che l’imprenditore può legittimamente inserire nel contratto, conservando un equilibrio normativo tra le parti sanzionando le clausole abusive (ovvero vessatorie): quelle clausole cioè che penalizzano in modo intollerabile il consumatore.
L’art. 33 co 1 precisa al proposito che sono vessatorie le clausole che, contrariamente alla buona fede (cioè ledendo il principio di correttezza contrattuale), determina a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto . Poiché, però, una definizione così ampia potrebbe dare incertezze nella tutela, il secondo comma dell’art. 33 elenca anche una serie di clausole presuntivamente vessatorie.
La sanzione prevista per le clausole abusive è la nullità (parziale, relativa). La nullità è parziale perché colpisce solo la clausola vessatoria e non tutto il contratto. E’ poi relativa, perché la nullità della clausola può essere fatta valere solo dal consumatore o può essere rilevata d’ufficio dal giudice a suo vantaggio (c.d. nullità di protezione).
Il professionista può vincere la presunzione del secondo comma dell’articolo 33, solo dimostrando che la clausola stessa è stata oggetto di una trattativa contrattuale tra professionista e consumatore, e per evitare abusi, la giurisprudenza ha chiarito che non è sufficiente per la prova che effettivamente vi è stata una trattativa, la dichiarazione in tal senso sottoscritta dal consumatore.
Vi sono tuttavia delle categorie di clausole che la legge considera nulle in ogni caso. In queste ipotesi, pertanto, il professionista non potrà essere mai ammesso alla prova contraria, che cioè non generano uno squilibrio tra i diritti ed i doveri delle parti.
Il Codice del consumo pertanto individua due tipi di clausole vessatorie:
a) quelle che si reputano vessatorie (e quindi nulle) fino a prova contraria;
b) quelle che si reputano sempre e comunque nulle.
Il giudice, comunque, nel valutare se una clausola sia o meno vessatoria nel senso precisato, incontra pur sempre i limiti di cui all’art. 34 del Codice del consumo, che stabilisce che “…la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile…”: ciò implica che se i predetti elementi (l’oggetto del contratto e l’adeguatezza del corrispettivo) non possono essere utilizzati per compiere l’accertamento circa l’idoneità delle singole pattuizioni a generare lo squilibrio contrattuale indicato dall’art. 33, comma I, ma anche che se tali elementi non sono individuati in “modo chiaro e comprensibile” la valutazione della vessatorietà della clausola potrà riguardare anche l’oggetto ed il corrispettivo.
Non possono mai essere considerate vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge ovvero che siano riproduttive di disposizioni o attuative di princìpi contenuti in convenzioni internazionali delle quali siano parti contraenti tutti gli Stati membri dell’Unione europea o l’Unione europea. Una serie di eccezioni all’elencazione di cui all’art. 33, comma II, Codice del consumo, sono poi previste nei commi 3-6 del medesimo articolo.
Il Codice del consumo prevede altresì che le clausole del contratto debbano essere redatte in modo chiaro e comprensibile (articolo 35): la norma però non prevede una sanzione specifica per la violazione di questo precetto. Si applicherà allora il principio (articolo 35 comma 2) della interpretatio contra stipulatorem , per cui, in caso di dubbio, la clausola andrà interpretata nel senso più favorevole al consumatore e contro il professionista, che è colui che predispone il contratto (si veda l’articolo 1367 cc.).
“Realizzato nell’ambito del Programma generale d’intervento della Regione Emilia Romagna con l’utilizzo dei fondi del Ministero dello Sviluppo Economico. Ripartizione 2015”