Obiettivo segno distintivo per il Made in Italy
Ieri, il ministro per lo Sviluppo economico, Carlo Calenda, e il Sottosegretario Ivan Scalfarotto hanno presieduto, presso la sede del Mise, una riunione con la partecipazione di Confindustria e delle principali associazioni del mondo produttivo sul tema della possibile istituzione di un segno distintivo per il Made in Italy sui mercati esteri.
L’obiettivo è consentire alle imprese che producono beni in Italia di poter apporre sulle proprie merci un contrassegno antifalsificazione contenente un segno descrittivo che assicuri al consumatore finale che il bene è originalmente ed effettivamente “Made in Italy”. Il fine dichiarato è quello di aiutare la produzione nazionale industriale e agroalimentare a difendersi dal cosiddetto Italian sounding, cioè da quei prodotti alimentari spacciati all’estero per italiani e che di “tricolore” non hanno nulla. Spesso sono prodotti negli stessi paesi in cui vengono venduti, con nomi italiani o confezioni che ricordano l’Italia per trarre in inganno il consumatore poco attento. L’intenzione è di applicare il nuovo contrassegno sulle esportazioni al di fuori dell’Unione Europea.
Una proposta che risale ad almeno il 2014, quando a lanciarla pubblicamente fu il ministro per le Politiche Agricole, Maurizio Martina.
Dalla riunione è emerso un accordo di principio sull’utilità dell’iniziativa. E nelle prossime settimane il Ministero dello Sviluppo Economico, assieme alle associazioni produttive, verificherà condizioni e requisiti di fattibilità tecnica per le aziende, al termine dei quali sarà avviata operativamente la fase di sperimentazione.
Il segno distintivo non sarà comunque un obbligo, ma un’opzione. Non un marchio di prodotto, ma un segno che qualifica l’identità italiana all’interno di un insieme di azioni di promozione a sostegno del “Made in Italy” all’estero. E qui il mondo produttivo agroalimentare si divide, tra chi (come Coldiretti) vorrebbe venisse conferito al prodotto fatto anche con materie prime unicamente italiane e chi (come Federalimentare) da sempre ribadisce che essendo il nostro Paese carente di materie prime (l’industria italiana assorbe il 73% della produzione nazionale, il resto siamo costretti a importarlo) è la lavorazione, la trasformazione della materia prima che garantisce la qualità e l’identità del “Made in Italy”. Quale sarà la discriminante del requisito è ancora tutto da decidere.